martedì 8 novembre 2011

Averci una casa

Per quasi un anno ero vissuto di qua e di là. Sui divani degli amici, per lo più, con poche cose in un borsone che nascondevo coscienziosamente al mattino in qualche angolo di quei soggiorni da single o da coppia giovane e squattrinata un po’ tutti uguali, coi manifesti di Steinberg e di Folon alle pareti, parecchio Klimt e qualche costruttivista russo e molti libretti politici negli scaffali, comprese intere annate di Quaderni Piacentini e Quaderni rossi e la famigerata edizione del Capitale di Editori Riuniti, intonsa ovunque, ma status simbol obbligatorio anche se ormai obsoleto.
E la chaise longue di Le Corbusier o quella a dondolo Thonet, residui iconici et culturali di una generazione che tirava i remi in barca, coi matrimoni che scoppiavano (come il mio), i figli piccoli, le ultime canne, la casa in centro storico e i soldi da guadagnare e i socialisti che davano le prime unghiate da nouveaux riches della politica, con quel craxone pelato e unto di sudore, lo sguardo sprezzante al Midas, mentre le BR uccidevano, e ancora avrebbero ucciso, per anni, con «geometrica potenza». Non avevo più una casa e non riuscivo a trovarne una nuova e neanche mi andava di cercare, vivevo praticamente nel mio studio, mangiavo tramezzini al bar o cercavo di farmi invitare a cena o me ne andavo in solitudine in trattoria. Proprio sotto allo studio un «noto tatuatore» aveva aperto, non si capisce a quale titolo, una specie di locale in un seminterrato, ove scoprii che un socio era un mio vecchio compagno di scuola, un primo della classe che aveva dirazzato e girato il mondo e che alludeva continuamente a situazioni vissute un po’ strane e pericolose, senza mai raccontare veramente nulla. E allora per un po’ la sera mangiavo lì. Solo a notte alta mi ritiravo da qualche parte, su un divano o un letto prestati, ma per poco. Mai più di un paio di settimane, massimo un mese. Nella mia distrazione non avevo mai considerato che la casa è per tutti una cosa delicata e importante e nessuno vuole averti tra le palle per più di qualche giorno, anche se praticamente non ti si vede né ti si sente. A nessuno frega realmente qualcosa di te e dei tuoi problemi. Non hai una casa? Trovatela e sparisci, per favore. Dunque saltavo di qua e di là, di casa in casa, sfruttando quel po’ di solidarismo de sinistra che ancora ci restava, a me e ai miei amici, più per abitudine ormai, che per reale convinzione. E poi trovai una casa: apparteneva a un giornalista amico di amici, e stava in un posto lontano e sconosciuto, molto vicino a dove immaginavo si situasse l’Orlo della Città. Ma mi facevano il contratto e costava poco. Una stanza più bagno et cucina. L’amico di amici possedeva in realtà tutto lo stabile, un palazzone di una decina di piani, quadratozzo, anni ’60, tristissimo e grigetto e irto di antenne come un cesto di aragoste, niente parcheggio condominiale, in un quartiere di speculazione democrista spinta e intensiva, con qualche terrain vague qui e là non ancora costruito, che fungeva da deposito di materiale edile o da area stoccaggio di sfasciacarrozze, e i parcheggi per strada insufficienti e i vigili stranamente solerti e integri che alle 8,30 del mattino ti chiamavano il carro attrezzi e ti facevano sparire la Cinquecento piazzata per disperazione in curva. Il letto-soggiorno dava su un balconcino, che a sua volta si proiettava in modo spericolato, dal settimo piano, nello spazio sovrastante una di queste aree vuote, lasciata a monta rozzi, con qualche macchina da cantiere che vi arrugginiva placidamente: questa piattaforma sul vuoto dava a sud e si beccava un sole violento e una luce abbacinante per quasi tutta la giornata e da lì la vista andava abbastanza lontano, solo per scoprire che quell’incubo di non-città che mi premeva addosso, in realtà era eletto a sistema e si estendeva molto oltre quei dintorni. Temevo quel balconcino e il suo troppo sole e odiavo pure il disegno della ringhiera-con-fioriere, di cui lasciai sempre incolta e polverosa la terra: lo odiavo perché aveva qualcosa di pateticamente poetico e se ne stava nello spazio come il cesto di una mongolfiera e appena vi mettevo piede mi innescava nel cranio un monologo interiore in automatico, fatto esclusivamente di pensieri maligni. Ero convinto che prima o poi mi sarei buttato di sotto. Così, d’impulso. In quella casa ci misi un letto a una piazza e mezza (ai piedi del quale collocai su uno sgabello un televisorino in bianco e nero, di quelli con le due antennucce, una diritta e l’altra circolare, da orientare), quattro sedie ministeriali di faggio e un tavolo minimale - roba comprata da uno che ci aveva un capannone sulle rive dell’Aniene dalle parti della Salaria - e una specie di armadio e basta, mi pare. Mi procurai anche uno specchio per il bagno, in verità, con annessa triste e indispensabile mensolina. Regolai il boiler al massimo in modo da potermi fare il tè al mattino. Comprai una scopa, ma non la usai mai, finché fui costretto a assumere una donna delle pulizie, suggeritami dal portiere dello stabile, che un po’ puliva e un po’ rubacchiava il rubacchiabile, vale a dire qualche camicia e qualche calzino: il marito doveva avere la mia taglia. Quell’autopunizione durò quattro anni. E in una notte di scirocco, rossa e terribile e piena di polvere tirata via dall’anima centrale del Sahara, raggiunsi di colpo e senza preavviso le condizioni adatte a fare REALMENTE il salto da quel balcone: una specie di ingiustificato, irriferibile schifo e ribrezzo di me stesso, ma freddo e senza l’ombra di perdono e consolazione…Insomma potevo farlo, ma non lo feci per semplice paura di morire. In seguito, per tutto il tempo che restai in quella casa, non misi mai più piede sul quella piattaforma sovraesposta. E finalmente, dopo qualche mese, me la filai di lì. Da allora ho sempre evitato anche solo di percorrere quella strada.

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